VITA SEGRETA DELL’ANACARDO, UN FALSO FRUTTO PARADISIACO

Ho iniziato a mangiare anacardi discretamente tardi, quando avevo l’età giusta per aver già letto molti racconti di Cortázar, per aver vinto uno scudetto e per aver assaggiato le lambic, ma comunque prima di volare verso New York. Se proprio mi fossi dovuto giocare il bonus precocità non l’avrei mai fatto per questo frutto secco tutto ritorto. Credo che questo mio ritardo, peraltro, sia dipeso dal fatto che sono stato sempre piuttosto circondato da individui allergici – le allergie o presunte tali a praticamente tutto, insieme ai film Disney commoventi e al cubalibre, sono il contributo della mia generazione all’indebolimento del genere umano.

Anzi, credo di essere arrivato all’anacardo proprio in virtù di quest’assedio di allergici: la nostra amica nocciolina con la gobba, infatti, sembra avere meno allergeni delle arachidi, e quindi nella mia filter bubble ha finito per costituire, con le mandorle, una specie di alternativa a rischio calcolato per accompagnare lo spritz delle diciotto.

Quindi, a un certo punto della mia vita, inatteso: Piacere, sono l’anacardo.

Dell’anacardo, prim’ancora che l’estetica intortolata, mi ha da subito colpito il nome: appurato che non fossi alle prese con nessun contrario di cardo, la diffidenza nei confronti del nuovo amico d’apertitivo si è comunque acuita quando ho scoperto che la sua origine etimologica era da ricercare nel greco anakárdion, che ha a che fare con il cuore. Da conoscitore basico dell’anatomia umana, avrei piuttosto detto che somigliasse a un rene. I portoghesi insediatesi nelle Indie Orientali, invece, lo hanno battezzato fava della Malacca: più coerente. Cosa c’entrava, quindi, il cuore? Questo anacardo, per me, cominciava a serbare troppi misteri, non me la raccontava giusta.

L’anacardo, in teoria, ma anche letteralmente, è un impostore. Dell’anacardium occidentale non è il frutto, cioè sì, cioè: non del tutto. Lo consideriamo il frutto, ma in realtà è il seme, anzi meglio: la noce. Per questo viene anche chiamato noce di acagiù, dal nome che l’albero ha preso in Brasile, caju, un albero tropicalissimo, l’epitome degli alberi tropicali, quello che sceglierei per illustrare la relativa voce sul Larousse.

Il vero frutto – che per un’assurda ragione, alla quale darei il nome di egocentrismo della noce di acagiù, saremo obbligati a chiamare falso frutto, pseudofrutto o frutto accessorio – quello sì che somiglia a un cuore, del quale ricorda forma e colore, con le sue sfumature rossastre e la sua forma peroide. E come un cuore, al suo interno custodisce un universo d’amore: la sua polpa, commestibile, è quanto di più carnoso, succulento, zuccherino possiate aspettarvi da un frutto tropicale. Il vero frutto falso di anacardo, insomma, al falso vero frutto – cioè noce – di anacardo, come si dice in Brasile, gli dà una pista.

Ho scoperto la vita segreta dell’anacardo a Cuba, durante un viaggio, quando mi è capitato di assaggiare questo bignami di tropicalità frullato. A Cuba lo chiamano marañon, in onore dello stato brasiliano del Maranhão, in cui è particolarmente diffuso. Sull’isola è arrivato a metà del Sedicesimo secolo, quando cioè i portoghesi hanno cominciato a portarlo un po’ in giro per il mondo, soprattutto nel Centro America e in India, a Goa. E i cubani sono tipo impazziti: hanno imparato a riconoscere le varietà più adatte a essere consumate – spoiler: sono quelle dalla pelle rossa, più che quelle dalla pelle gialla –, ne hanno fatto succhi, marmellate e bevande fermentate. «Ninguna cabra que come marañon es delgada», dicono da quelle parti: non c’è capra che mangi marañon che sia magra, proprio perché questo vero falso frutto è pieno di elementi nutritivi. Poi, durante una delle prime crisi energetiche potenti, negli anni Novanta, i cubani hanno scoperto che l’anacardium occidentale aveva anche un’altra importantissima, invidiabile caratteristica: il suo legno bruciava che era una bellezza. Da quel giorno, il numero di piante è radicalmente diminuito, e il marañon è diventato una specie di prelibatezza a rischio d’estinzione, nell’isola. Esattamente nello stesso momento in cui milioni di bar fighetti, nel mondo, inserivano nelle loro ciotoline il falso vero frutto della pianta. Non vi sembra un’ingiustizia?

Se avete assaggiato un frutto tropicale, se avete avuto l’opportunità di testarne la mescidanza dentro un planteur, immagino abbiate una prima polaroid sensoriale di quale possa essere il gusto del falso vero frutto dell’anacardo: un ibrido basilisco tra mango e ananas, dolcissimo come un tramonto incorniciato di palme, sensuale come un ballo mulatto e acido come un morso di frutto della passione: e poi, sul finale, proprio nel momento in cui il condomblé che sta andando in scena sulle papille raggiunge l’acme del coinvolgimento, ecco che i tannini portano un pizzico d’astringenza che regala profondità, tipo tamburi cupi nella notte buia.

Il vero frutto falso dell’anacardo, insomma, è la tipa che si presenta al provino per quel ruolo a teatro a cui tiene tantissimo insieme all’amica – che nel nostro caso è il falso vero frutto – e poi, alla fine, a ottenere il ruolo è proprio l’amica che si trova lì per caso.

La mela di Caju – d’ora in poi, e per il resto della vita, prenderò a chiamarlo così, il vero frutto falso, con un nome tutto suo, che gli dia dignità – ha cinque-volte-cinque il contenuto di vitamina C di un’arancia, proprietà antiossidanti, rafforza le difese immunitarie, favorisce la digestione grazie al suo alto contenuto di fibre, è piena di collagene che fa tanto bene alla pelle. Si presta a farsi succo, liquore – in India, con il nome di Feni, è uno dei distillati più caratteristici del subcontinente –, chutney e marmellata. E poi non sfigura neppure nella rosa del dream team dei curry.

A sublimare questa centenaria mania dell’impostore, purtroppo, temo sia stata la difficoltà di lavorazione della raccolta della noce di anacardo, che all’interno dei suoi gusci vede scorrere un olio resinoso caustico e corrosivo, simile all’urusciolo dell’edera velenosa, il cui effetto si attenua solo quando le mele, a piena maturazione, cadono a terra.

Per il nostro frutto secco ritorto, insomma, è necessario il sacrificio di questo vero falso frutto paradisiaco.

E se avessimo sbagliato tutto, con gli anacardi?

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